La sezione di Padova del gruppo “La Giovane Montagna” (lo stesso che da 24 anni organizza la Traversata dei Colli Euganei lungo l’Altavia n.1, ogni anno ai primi di aprile) presenta in due serate una selezione di opere presentate al Film Festival della Lessinia (il primo appuntamento è stato ieri sera, mentre il prossimo sarà il 29 gennaio ’09, alle 21.15 presso la sala polivalente comunale di via Valeri a Padova).
Sono capitato lì senza bene sapere a cosa andavo incontro. Invitato da uno degli organizzatori della TCE e un po’ sì incuriosito dal tema: cinema di montagna.
Mi immaginavo però di vedere alpinisti nella neve e nei ghiacci armati di ramponi e piccozza, o appesi come ragni a pareti strapiombanti o ancora spericolati sperimentatori di nuove forme estreme dell’esperienza d’altura.
E invece no, niente di tutto ciò, come del resto è stato da subito preannunciato dal presidente di sezione Angelo Polato durante la sua breve ma incisiva presentazione.
Qui si tratta, ha detto, di una montagna vissuta dai suoi abitanti, delle loro memorie, della loro resistenza, delle loro speranze. Un cinema discreto che racconta storie nascoste e isolate, come lo sono i luoghi in cui si svolgono e i loro protagonisti.
Davvero una piacevole, piacevolissima sorpresa.
A causa di un inconveniente tecnico è stato ritoccato il programma sospendendo la seconda proiezione prevista dal programma e sostituendola con una delle due messe in calendario per il prossimo appuntamento. Poco male, penso io.
Parte il primo film, Un Natale in Tibet, perfettamente calzante in questo periodo di avvento ormai avanzato. Ma ad un laico come me la cosa non colpisce molto, anzi rimango più che altro divertito dal titolo che mi rimanda, alla scanzonata serie dei filmetti natalizi di Neri Parenti.
Accostamento immorale, ahimè, lo capisco subito dopo pochi secondi di immagini di un fuoco rosso che occupa l’inquadratura mentre la voce narrante (in francese ma straordinariamente tradotta in diretta da una bella e giovane voce di ragazza della Lessinia) avverte: siamo partiti alla volta del Tibet alla ricerca di esotismo, di oriente, di spiritualità zen, e ci ritroviamo immersi in un luogo intriso di quelle stesse tradizioni e credenze da noi ormai perdute… abbiamo viaggiato nello spazio oppure nel tempo?
Non mi dilungo oltre su questo bel film, che racconta di una comunità cattolica del Tibet, con le sue tradizioni e la sua cultura, il suo habitat e i costumi, le memorie, le persecuzioni e le speranze.
Ma è il secondo film, quello fuori programma, che mi colpisce e mi appassiona così tanto da costringermi stamattina a scriverne sul mio blog, con la speranza di contribuire, magari in minima parte, alla divulgazione di una conoscenza necessaria.
OSSignùr! La montagna assistita, il titolo è un gioco di parole fra la frequente esclamazione piemontese (Oh mio dio!) e l’acronimo OSS, che sta per operatore socio-sanitari.
Il film consiste nel seguire da vicino la giornata lavorativa di due assistenti, di un’infermiere e di un medico che anziché lavorare in ambienti chiusi e convenzionali quali ospedali e ambulatori, lavorano nel territorio. Sì, ma quale territorio? Valli strette e ombrose, scoscese, fra borgate isolate e semi abbandonate, in cui abitano pochi anziani, spesso non più autosufficienti, soli e anche tristi o depressi, a volte, o alcolisti, o malati terminali, o semplicemente abbandonati a loro stessi.
Ma è gente che non molla. Non se ne parla nemmeno di lasciare la casa in altura, il luogo in cui si è nati e cresciuti, non se ne parla assolutamente di case di riposo o di ospedali, ignobili viatici per la morte.
Per fortuna, mi viene da pensare, che esistono questi, seppur minimi servizi di assistenza domiciliare, gran bella cosa! Mi compiaccio allora del nostro sistema sanitario nazionale, almeno per questo.
Ma, a ben vedere il problema non è solo quello dei “poveri vecchietti”. Il vero malato non sono il Giacù o il Pierre che abbiamo conosciuto nel film, il vero malato, la vera malata è LEI la montagna.
Ma quanti di noi lo sanno, quanti di noi dichiarati suoi amanti e difensori lo sanno e conoscono i suoi problemi, le difficoltà insormontabili che sta vivendo negli ultimi decenni?
Eccoci spiattellata in faccia una Montagna dura, non amena, triste e moribonda.
Non mi dilungo oltre.
Propongo però a seguire alcuni spunti di riflessione, sulle Alpi e l’ambiente Montano in Italia, un territorio ingiustamente e criminosamente troppo spesso dimenticato.
1 - Da: Fondazione Benetton Studi e Ricerche http://www.fbsr.it/ita/pagine.php?s=&pg=316
Alpi. Quale futuro, dopo la grande trasformazione? Werner Bätzing
conferenza pubblica, Treviso, 23 marzo 2006, ore 17.30, piazza Borsa, sala della Camera di Commercioseminario, Treviso, 24 marzo 2006, ore 9.30-14.00, Fondazione Benetton Studi Ricerche, via Cornarotta 9, palazzo Caotorta
Dieci tesi sulle Alpi
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6. Nell’era preindustriale (l’era della società agraria) le Alpi erano intensamente popolate e utilizzate, e la natura era dappertutto trasformata dall’uomo (paesaggio culturale). Le “belle Alpi” non sono un prodotto della natura, ma un prodotto dell’interazione uomo-natura. Nella situazione originaria (senza uomo) le Alpi erano quasi dappertutto coperte di boschi. Pertanto, il paesaggio culturale rappresenta una situazione culturale (non naturale), e dev’essere sempre salvaguardato dall’uomo per non sparire (a causa di erosioni o di rimboschimenti spontanei). La modernizzazione non è la distruzione di una situazione idilliaca, ma la distruzione della struttura pre-industriale. Punto centrale: sta sparendo progressivamente la responsabilità delle società agrarie verso il proprio paesaggio, assieme alla gestione permanente del paesaggio culturale (base materiale dell’esistenza).7. Il principio di modernizzazione è: uso intensivo di territori sempre più limitati e piccoli, e non-uso di territori sempre più vasti. Condizione centrale è il grande traffico tra i territori di uso intensivo (divisione del lavoro sempre più efficace). Conseguenze per le Alpi: sviluppo di nuove infrastrutture per il trasporto, come strade (dal 1820-1830), ferrovie (dal 1860-1870) o autostrade (dal 1965). Tutte le vallate, comuni e borgate senza strutture moderne vengono fortemente svalutate.8. Sviluppo moderno significa, per le Alpi:- urbanizzazione nelle (piccole) regioni adatte a usi moderni (fondovalle, bacini intra-montani, stazioni turistiche);- spopolamento delle grandi superfici montane, dove finisce ogni attività economica dell’uomo.Entrambi i processi creano gravi problemi ecologici, culturali ed economici.9. Bilancio: le Alpi scompaiono, non nel senso che spariscono le vette e le montagne; le Alpi scompaiono come spazio umano di interazione specifica uomo-natura, di economia basata su risorse specifiche delle Alpi e di cultura all’interno della quale le montagne e le esperienze con le montagne nella storia giocano un ruolo importante. O questo spazio umano sparisce (spopolamento) o viene trasformato in aree di urbanizzazione di carattere ubiquitario e anonimo.10. Questo sviluppo non è tipico delle Alpi, ma è tipico di tutta l’Europa (le Alpi come “caso normale”). Ma le Alpi dimostrano molto chiaramente – in modo più chiaro e più evidente che altre regioni europee – che tutto questo è da considerare come una perdita per l’umanità: lo sviluppo moderno e post-moderno, con il dominio assoluto dell’economia, distrugge le strutture territoriali in quanto spazi umani. Senza responsabilità per la natura, per la storia, per la cultura, ecc., una regione non merita più di essere vissuta, non è più vitale.
2 - Dalla lettera di Paolo Rumiz al presidente del Cai Annibale Salsa. In occasione del 98esimo Congresso del CAI - Predazzo (http://trentinaz.wordpress.com/2008/10/22/lettera-al-club-alpino-italiano/).
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Ho cominciato a frequentare la montagna da bambino. Da adolescente ho sognato le prime arrampicate leggendo “Alpinismo Eroico” di Emilio Comici, e talvolta, inseguendo questo eroismo ho rischiato la vita da incosciente. Erano gli anni in cui, specialmente nella mia Trieste, le Alpi erano le sentinelle della Nazione. Da Aosta a Tarvisio gli Alpini uscivano ancora con i muli. Poi è arrivata la stagione adulta, il sesto grado, le nuove vie aperte in Pale di San Martino, Gruppo dell’Agner, Dolomiti della Sinistra Piave. A trent’anni ho lasciato l’arrampicata, quando ho messo su famiglia, ma ho continuato a frequentare la montagna con occhio attento alle sue genti e al suo habitat.
Negli anni seguenti ho raccontato l’Alpe come giornalista e scrittore, continuando a percorrerla in silenzio, e più la percorrevo, più aumentava la mia insofferenza per certo alpinismo – ginnico, narciso e dunque infantile - che puntava all’estremo ignorando tutto ciò che circondava lo strapiombante itinerario verso la vetta. Tutto, a partire dagli uomini. Essi non vedevano l’agonia dei ghiacciai, l’inselvatichirsi del territorio, la desertificazione dei villaggi, la requisizione delle sorgenti, l’aggressione agli ultimi spazi vergini, la cementificazione degli altopiani, la costruzione di impianti di risalita nel cuore di parchi naturali. Non reagivano allo smantellamento del paesaggio che la nostra Costituzione ci impone di tutelare.
Nel 2003, l’anno della grande sete, ho monitorato le Alpi, in un affascinante viaggio di quattromila chilometri dal Golfo di Fiume fino alle Alpi Liguri. Ne ho tratto un racconto a puntate uscito in 23 puntate su “la Repubblica”, una pagina al giorno. Il Grande Male che ci mina dall’interno era visibile ovunque, nel prosciugamento dei fiumi. Mai nella storia d’Italia, erano stati così spaventosamente vuoti. Il loro simbolo era il Piave, teoricamente sacro alla Patria, ma praticamente ridotto a un rigagnolo, un greto allucinante spesso più alto delle stesse strade che lo costeggiano. Uno stupro perpetrato dalla stessa Enel che aveva ereditato il Vajont.
Non esiste in Europa un Paese con i fiumi nello stato pietoso di quelli italiani. Le nostre acque non mormorano più, sulle nostre valli scende una cortina di silenzio funebre di cui nessuno parla. La gravità della situazione non sta solo in quelle ghiaie allucinanti, ma nel fatto che pochissimi le notino, nel fatto che TUTTO attorno a noi – dalla pubblicità audiovisiva nelle stazioni alla dipendenza nazionale dai telefonini - è costruito perché non ci rendiamo conto del disastro e continuiamo a dormire sonni tranquilli fino a requisizione ultimata delle risorse superstiti.
L’opinione pubblica italiana dorme, sta a noi svegliarla. Sta a noi, innamorati della montagna, ricordare che l’Italia è malata e nonostante questo c’è chi vuole succhiarle le ultime risorse. Una notissima multinazionale dell’alimentazione sta apprestandosi a requisire le ultime fonti dell’Appennino tosco-emiliano; altre società hanno catturato le residue sorgenti libere della Val Tellina con la scusa di preservare una risorsa preziosa. Si inventano eufemismi per consentire gli espropri: per esempio “neve programmata”, per nobilitare quel salasso di fiumi moribondi che si chiama innevamento artificiale.
Si afferma che pompare acqua dai fiumi serve a sostenere l’economia della montagna e quindi a evitare lo spopolamento, ma tutti – anche i citrulli – sanno che quegli impianti affogano in deficit spaventosi che la mano pubblica, resa sensibile da opportune donazioni, sarà chiamata a coprire con i nostri soldi. E tutti, nel comparto, sono a conoscenza che più nessuno in Austria, Francia, Slovenia, Svizzera e altre nazioni montanare d’Europa, programma seggiovie a quote dove la neve non arriva se non episodicamente.
Ma la grande scoperta della mia vita di giornalista è stata l’Appennino, che ho percorso metro per metro nel 2006, dando vita a un’altra serie di reportage. Ho scoperto un arcipelago di meraviglie e una rete di uomini-eroi che si ostinano a resistere in quota perché hanno la lucida certezza che l’equilibrio del nostro Paese dipende dalle terre alte. Un’Italia minore, dimenticata dal potere, della quale temo che il nuovo federalismo in auge servirà solo a sdoganare il saccheggio.
Il simbolo di questa aggressività suicida del Paese verso la sua montagna l’ho visto incarnato nella pastorizia, massacrata di divieti e schiacciata da un’alleanza fra burocrati di provincia e una grande distribuzione che spaccia nei nostri negozi carne straniera senza nome e senza qualità. La pastorizia, cenerentola dimenticata, dopo essere stata per secoli inestimabile ricchezza del Paese.
Sempre più spesso capita che ai piccoli comuni spopolati e in bolletta si presentino emissari di grandi aziende che, in nome dell’equilibrio ambientale e altre cause nobili come l’abbattimento del CO2 o il salvataggio delle acque, propongano la costruzione di piccole o grandi centrali, come quella a biomasse che presto stravolgerà la parte più intatta dell’Appennino parmense. Senza più lo Stato alle spalle, questi Comuni non hanno più gli argomenti tecnici e la capacità contrattuale per dialogare alla pari con questi giganti danarosi, capaci di mettere a tacere qualsiasi resistenza. La montagna da sola non ce la fa a proteggersi. Anzi, talvolta è la peggior nemica di se stessa.
Per questo credo che, oggi nel Cai, il ruolo di sentinella dell’Alpe vada rivisto. Noi soci restiamo sentinelle, certo: sapendo però che il nemico non è più esterno alla frontiera, ma abita qui e si muove come vuole nella finanza, nell’economia e nella politica del Paese. Per batterlo serve un’alleanza fra città a provincia, alpinisti e montanari. Il Cai deve ritrovare lo spirito delle origini, laico e indipendente dell’Italia post-risorgimentale che partì alla scoperta di se stessa, monitorando, crittografando, esplorando con passione ogni angolo sperduto del territorio appena unificato. L’Italia è un Paese di montagna, e non voglio che diventi un’esausta colonia, a disposizione di poteri senza patria.
E verrà un giorno in cui i fiumi si svuoteranno, l’aria diverrà veleno, i villaggi saranno abbandonati come dopo una pestilenza, giorni in cui la neve e la pioggia smetteranno di cadere, gli uccelli migratori sbaglieranno stagione e gli orsi non andranno più in letargo. Verrà anche un tempo in cui gli uomini diverranno sordi a tutto questo, dimenticheranno l’erba, le piante e gli animali con cui sono vissuti per millenni.
Sembrano le piaghe d’Egitto. Invece è l’Italia di oggi. Pensate che uno ci dica tutto questo, un profeta solitario incontrato per strada. Gli daremo del matto? Oppure taceremo per la vergogna di ammettere che è già successo e di non aver fatto niente per impedirlo?
Paolo Rumiz
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1 commento:
bravo emme, ottima segnalazione. è un aspetto della montagna che mi interessa moltissimo anche se mi vede impotente, purtroppo.
sui miei monti questo aspetto si nota meno; prob a causa della eccessiva (!) vicinanza con la "civiltà". ma l'ho avvertito in altre parti di Italia o attraverso i racconti di Rigoni Stern.
Malinconia per tempi duri che non ho mai visto.
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